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La fattispecie di false informazioni per ottenere il reddito di cittadinanza si pone in continuità normativa con quella concernente l´assegno di inclusione. Pertanto, non è revocabile ai sensi dell´art. 673 c.p.p. la sentenza di condanna per il delitto di cui all´ art. 7 del D.L. n. 4/2019, convertito dalla L. n. 26/2019, atteso che la sua formale abrogazione non integra un´ipotesi di “abolitio criminis”
Mariassunta Schinea
La sentenza 39155/2024 della Terza Sezione penale della Corte di Cassazione consente di esaminare la questione relativa alla configurazione, in caso di successione di leggi penali nel tempo, del fenomeno di successione modificativa inquadrabile nell’art. 2 comma 4 c.p. o della mera abolitio criminis prevista dal comma 2 del medesimo articolo.
La Corte è stata chiamata a pronunciarsi su un ricorso proposto avverso un’ordinanza del Tribunale di Bologna che, nelle funzioni di giudice dell’esecuzione, aveva rigettato l’istanza di revoca della sentenza di condanna ai sensi dell’art. 673 c.p.p., relativa al reato previsto dall’art. 7 della legge n. 26 del 2019. Il ricorrente sosteneva che la norma incriminatrice fosse stata abrogata da una legge successiva e che, pertanto, dovesse trovare applicazione il principio di diritto secondo cui «nessuno può essere punito per un fatto che la legge non considera più reato» (art. 2, comma 2, c.p.). Inoltre, in base a tale principio, l’intervenuta abrogazione avrebbe comportato la cessazione dell’esecuzione della pena e di ogni altro effetto penale derivante dalla condanna.
Preliminarmente, la Suprema Corte ha ricostruito il contesto normativo in cui si inserisce l’art. 7 della legge n. 26/2019, norma che punisce le false od omesse dichiarazioni per ottenere indebitamente il beneficio del reddito di cittadinanza. L’intera disciplina è stata successivamente abrogata dalla Legge di Bilancio n. 197 del 2022. Tuttavia, pur essendo la legge entrata in vigore a gennaio 2023, il legislatore ha previsto, con il comma 318 dell’art. 1, un differimento dell’efficacia abrogativa al 1° gennaio 2024. Di conseguenza, l’art. 7 della legge n. 26/2019 è rimasto operativo per tutti i fatti commessi fino al 31 dicembre 2023. Ad ogni modo, prima della predetta data, il legislatore è intervenuto con il d.l. 4 maggio 2023 n. 48, recante «misure urgenti per l’inclusione, e l’accesso al mondo del lavoro» conv. con modif. con l. 3 luglio 2023 n. 85 introducendo l’assegno di inclusione, misura sostituiva del reddito di cittadinanza, prevedendo anche una fattispecie incriminatrice dal medesimo contenuto dell’art. 7 l. 26/2019. Con lo stesso decreto il legislatore ha inteso chiarire che «al beneficio di cui all'articolo 1 del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, continuano ad applicarsi le disposizioni di cui all'articolo 7 del medesimo decreto legge, vigenti alla data in cui il beneficio è stato concesso, per i fatti commessi fino al 31 dicembre 2023».
Con tale disposizione, il decreto ha derogato al principio di cui all’art. 2 comma 4 c.p. che prevede l’applicazione della legge più favorevole in caso di successione di più leggi nel tempo. Tale deroga non presta il fianco a censure, essendo indubbiamente sorretta da una del tutto ragionevole giustificazione. Ed invero, con tale disposizione il legislatore «ha inteso far salva l’applicazione delle sanzioni penali dallo stesso previste in relazione al reato afferente all’indebito conseguimento a seguito di omesse o false dichiarazioni del reddito di cittadinanza per fatti commessi entro il termine di efficacia della relativa disciplina, stessi fatti che se commessi a partire dal 1 gennaio 2024, sono puniti ai sensi della disposizione di cui all’art. 8 cit.». Si tratta di una scelta in linea con il dettato costituzionale dell’art. 3 che pone il divieto di discriminazione irragionevole tra situazioni uguali.
La perdurante applicabilità di tale disposizione è stata confermata più volte dalle singole sezioni della Cassazione e dalle Sezioni Unite, oltre che dalla Corte Costituzionale. Così la predetta nell’ordinanza 22 febbraio 2024 n. 54: «L’entrata in vigore dell’art. 1, comma 318, della legge n. 197 del 2022, avvenuta il 1° gennaio 2023, non ha prodotto alcun immediato effetto abrogativo delle disposizioni censurate, essendo stato questo espressamente rinviato dallo stesso comma “[a] decorrere dal 1° gennaio 2024” (…). Infatti, con l’art. «13, comma 3, del d.l. n. 48 del 2023, come convertito, entrato in vigore ben prima che, per effetto del richiamato art. 1, comma 318, potesse prodursi l’abrogazione (tra le altre) delle disposizioni censurate, il legislatore ha chiaramente manifestato la volontà che le condotte previste e punite dall’art. 7 del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, continuino a essere considerate penalmente rilevanti, escludendo dunque il prodursi di una abolitio criminis dal 1° gennaio 2024. Tale esclusione ha trovato uniforme conferma nella giurisprudenza della Corte di cassazione».
Fatte le premesse di cui sopra, la Corte ha dovuto chiarire se la successione delle leggi sopra richiamate abbia dato luogo ad una pura e semplice abolitio criminis o ad un fenomeno di successione di leggi penali nel tempo, che mantiene la rilevanza penale del fatto e di conseguenza non comporta la revoca della sentenza ex art. 673 cod. proc. pen. La scelta interpretativa è ricaduta sulla seconda opzione, sulla base di una ormai consolidata giurisprudenza che ritiene che le disposizioni si pongono in rapporto di sostanziale continuità normativa. In particolare, l’abrogato reddito di cittadinanza è sostanzialmente identico alla nuova misura ugualmente di contrasto “alla povertà, alla fragilità e all’esclusione sociale delle fasce deboli attraverso percorso di inserimento sociale, nonché di formazione, di lavoro e di politica attiva del lavoro”.
Orbene, gli Ermellini hanno validato la decisione ritenendo che il Tribunale di Bologna, nelle funzioni di giudice dell’esecuzione, abbia correttamente applicato il criterio strutturale, ormai uniformemente accolto, per l’accertamento dell’“abolitiocriminis” in ipotesi di intervenuta modifica della norma incriminatrice. L’analisi si fonda su un confronto tra le fattispecie astratte succedutesi nel tempo, senza più considerare i criteri, meramente valutativi, del bene giuridico tutelato e delle modalità di offesa che «consente autonomamente di accertare se l’intervento normativo successivo abbia eliminato un elemento costitutivo del fatto tipico, determinando così una trasformazione radicale della figura di reato, oppure se, non incidendo sulla struttura essenziale della norma, permanga un nucleo comune che garantisca la continuità normativa».
A corollario delle argomentazioni richiamate sinteticamente, la Corte ha rigettato il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali concludendo che «nessun effetto demolitorio si è verificato a seguito dell’art. 1 comma 3 della legge n. 85 del 2023, perché è seguita l’introduzione, a partire dal maggio 2023, di una fattispecie di reato del tutto sovrapponibile a quella che era prevista dall’art. 7, norma poi abrogata a partire dal 1.1.2024 da cui la permanenza del disvalore del fatto». In altri termini, l’abrogazione dell’art. 7 non ha comportato l’abolizione del reato, in quanto il contenuto del predetto è riproposto senza sostanziali diversità nella nuova norma incriminatrice.
Sezione: Sezione Semplice
(Cass. Pen., Sez. III, 25 ottobre 2024, n. 39155)
Stralcio a cura di Vincenzo Nigro